La Mina
Capitolo tu – Lei.
Mina Lulli era una vecchietta di circa 85 anni, di corporatura esile, e con l’aria perennemente incazzata. Aveva i capelli grossi e ancora incredibilmente neri anche se venati di qualche striatura bianca. Erano lisci, untuosi, tagliati sulle spalle e con una frangetta anacronistica che probabilmente si rifilava da sola davanti allo specchio.
Due occhi neri come il carbone piuttosto distanti fra loro davano il via ad un naso che bonariamente possiamo definire importante e che scendeva facendo una leggera gobba fino ad una barriera di peli. Questi in un soggetto di sesso maschile si sarebbero detti “baffetti” e mal si conciliavano con il rossetto rosso che le definiva la piccola bocca, che teneva sempre stretta in una smorfia di disapprovazione per qualsiasi cosa le venisse detto, foss’anche il più dolce dei complimenti. Intendiamoci, questo in via meramente di ipotesi perché a nessuno mai sarebbe venuto in mente di farle un complimento. Il primo impedimento al simpatico gesto sarebbe stata la paura di essere fatto oggetto di qualche strana preghiera che a giudicare dall’aspetto quella vecchietta sembrava in grado di metter su con una bambolina e due spilloni nell’intimità della sua camera. Il secondo che anche a volersi sforzare era difficile trovare, sia nel fisico che nel carattere, materia per un complimento.
Quando fra di loro volevano riferirsi alla Mina i dipendenti di Villa la Querce l’appellavano “Magamagò”, riferendosi sia al carattere che all’aspetto. Nella Mina le due facce dell’essere umano andavan di pari passo verso quanto di peggio si potesse immaginare inibendo qualsiasi tentazione buonista.
Si vestiva sempre di nero. La gonna, una maglia di lana abbottonata fino al penultimo bottone che lasciava uscire il colletto di una camicia quasi sempre bianca con qualche piccolo ricamo floreale sulle punte. A completare l’inquieta figura l’immancabile borsa di pelle nera con grandi manici rotondi, che quando stava seduta teneva sulle ginocchia reggendola con entrambe le mani, dando quasi l’idea che anziché essere lei a sorreggere la borsa in realtà fosse la borsa a darle modo di starci appesa. Questo modo di stare seduta in punta di sedia con la borsa sulle ginocchia le conferiva l’aria di chi è in attesa di essere prelevato e accompagnato chissà dove. Sembrava sempre in attesa di un treno che dovesse passare di lì a poco.
Era una donna impossibile che non si era mai sposata. Nessun uomo sano di mente avrebbe potuto essere votato ad un martirio così tragico, lento e prolungato nel tempo. Lei comunque sosteneva fantasiosamente di aver avuto diversi ammiratori in giovinezza ma molti dubitavano persino avesse avuto una giovinezza. Il dottor Moschini, lo psicologo di Villa la Querce, dopo che aveva ricevuto dalla Mina la confidenza sui suoi corteggiatori in una delle due sedute annuali imposte dal protocollo regionale aveva iniziato ad indicarla nei suoi appunti come “Lulli Mina – (la Garbo)” in onore alla nota attrice svedese ed al participio presente del verbo tutto toscano, garbare cioè piacere.
Questa donnina aveva passato tutta la vita a rompere le palle al fratello sostenendo che non essendosi sposato avesse bisogno di una donna in casa. Errore tremendo. Fernando Lulli detto “Lullino” per distinguerlo dal padre, non si era sposato per il motivo diametralmente opposto. Non voleva una donna per casa, tanto meno una rompiscatole, bisbetica ed impicciona come sua sorella. In realtà a causa del terribile misunderstanding dovette sorbirsela proprio come una moglie finchè morte non li separò. Con un amico fidato, il Lullino, una volta si era lasciato andare alla confidenza che il suo sogno sarebbe stato rientrare la sera a casa sapendo che nessuno lo stava aspettando. Il giorno dopo si era affrettato a dire all’amico che quello che gli aveva riferito la sera prima probabilmente era il frutto del vino che si erano bevuto e che non si era certo voluto riferire alla presenza di Mina a casa sua con quella avventata dichiarazione. Aveva avuto sempre un certo timore di quella figura così austera e poco incline ai sentimenti specialmente di quelli di cui l’animo umano ha più bisogno: i buoni sentimenti. Era proprio per l’aridità sentimentale che gli imponeva la vita con sua sorella che aveva ritenuto di non dover mai confessare al prete di turno il fatto che il lunedì mattina, giorno di chiusura del negozio, andava a Firenze in via Laura al 7. Era un affezionato cliente della signora Matilde una maitresse che gli procurava ragazze giovani, possibilmente dalle forme abbondanti e dai seni materni fin dagli anni sessanta. Fernando a pagamento si faceva coccolare dolcemente. Puntuale alle nove entrava nell’appartamento-bordello ed alle dieci usciva. Un’ora precisa nella quale raramente aveva un orgasmo, piuttosto si lasciava abbracciare, accarezzare e baciare teneramente per tutto il tempo, segno evidente di una mancanza di tenerezza intorno a se.
Anche considerato questo suo vizio per le troie il Lullino era un brav’uomo che aveva un negozio di scarpe in paese e che quando passò a miglior vita lasciò l’arida sorella umanamente sola ma economicamente in compagnia di alcuni immobili con il cui affitto sarebbe campata egregiamente in sua assenza.
Nella solitudine umana creata dalla prematura morte del fratello la Mina decise di continuare la sua missione di rompiballe cercando di sostituirlo con gli inservienti, i medici e gli ospiti di Villa la Querce suo nuovo quartier generale.
Con l’aiuto del ragioniere di suo fratello aveva affittato così come aveva fatto con le altre in precedenza anche la casa dove aveva abitato insieme al compianto Fernando.
Con i proventi degli affitti pagava regolarmente ogni dieci del mese la retta all’amministrazione di Villa la Querce, ogni fine mese la notula che il suo ragioniere le rimetteva mensilmente secondo gli accordi (per non accumulare), e le tasse che lo stesso buono a nulla le faceva improvvidamente pagare due volte l’anno, a giugno e a novembre. Per adempiere a queste incombenze l’ultimo giorno lavorativo del mese la Mina prendeva la corriera che si fermava alle 15,10 davanti all’ospizio ed in dieci minuti percorreva i cinque chilometri che separavano Montalto da Borgo Mulino. Scesa nella piazza dove facevano capolinea le corriere si recava zampettando velocemente nell’ufficio del ragionier Mori che dalla piazza distava non più di 200 metri. Senza salutare le signorine e senza mai fare anticamera entrava nella stanza del professionista che abituato al rituale nell’occasione si faceva trovare solo. Si intratteneva con lui insultandolo per circa mezz’ora e sbrigando le faccende per le quali aveva dovuto sopportare un viaggio caldo d’estate e freddo d’inverno. Era nelle mezze stagioni che la vecchia signora dava il meglio di se nell’inventarsi originali argomenti di lamentela comunque sempre tesi a far sentire quel pover’uomo del Mori un gran pezzo di bischero. Usciva dall’ufficio, naturalmente senza salutare nessuno, e si fermava a concedersi il lusso di un caffè al bar “Micheli”.
Il bar “Micheli” aveva un solo tavolino a disposizione dei clienti e la Mina sgarbatamente trovava sempre il modo di accaparrarselo o far sloggiare il malcapitato avventore. Poi con finta gentilezza compita nella sua abituale ed anacronistica postura seduta in punta di sedia e con la borsa sulle ginocchia ordinava, rimarcando con una pausa studiata per attirare l’attenzione le ultime due parole:
– Un caffè lungo, due biglietti e un gratta e vinci, … per favore.
Il biglietto in più lo avrebbe conservato per un mese intero nella sua borsa nera perché lo avrebbe usato il mese successivo per il viaggio di andata.
Il barista, tipo sempre scazzato, simpaticamente di rimando teneva a precisare,
– Signora per i biglietti scelgo io, oppure ha un’idea sua di dove andare?
Mina fulminandolo con i due carboncini che aveva al posto degli occhi chiudeva la discussione con quello che secondo lei era solo un garzone precisando,
– Montalto …due biglietti per Montalto… (pausa) Grazie.
Beveva il suo caffè nel quale metteva tre bustine di zucchero, facendolo praticamente diventare una glassa. Aspettava che il barista la guardasse per dargli ad intendere con una smorfia che quel caffè faceva schifo. Poi si ripuliva la bocca con una salvietta, l’appallottolava e allungando il braccio meno in vista lungo il corpo la faceva scivolare in terra, il tutto usando solo una mano e tenendo sempre ben stretti nell’altra i manici della borsa. Lasciava quella borsa solo per compiere due operazioni, aprire le bustine di zucchero e grattare la cartolina del gratta e vinci. Due operazioni impossibili da realizzare per un monco. Si prendeva tutto il tempo necessario per ripulire la colorata schedina dalla sua patina argentata, facendo delle lunghe pause di riflessione fra una grattata e l’altra, il tutto accompagnato da una vorticosa litania silenziosa della quale si aveva contezza dai piccoli e frenetici movimenti delle labbra ma di cui nessuno conosceva il significato. Una volta grattato tutto ciò che c’era da grattare sostava in religiosa meditazione davanti alla schedina, interrompendo la personale conversazione fino a che non era sicura che quello che stava leggendo nella cartolina fosse realmente quello che c’era scritto e che le combinazioni scoperte le dessero o non le dessero diritto ad un premio. Solo a quel punto si relazionava per la terza volta da quando era entrata con il gestore del bar facendogli una domanda la cui risposta conosceva meglio di lui.
– A che ora parte la corriera per Montalto?
Il ragazzo dietro al bancone alzando gli occhi verso il grande orologio che era appeso sopra la porta d’ingresso le rispondeva sfidandola a duello in maleducazione.
A quel punto la terribile vecchietta si alzava e si vendicava strisciando la sedia per realizzare il maggior rumore possibile, si avvicinava al bancone per pagare e se la fortuna le aveva sorriso presentava la fortunata cartolina alla cassa ed il ragazzo controllando svogliatamente il cartoncino le chiedeva.
– Ritenta, o portiamo a casa il malloppo?
La Mina incassava il malloppo pagava, usciva, chiaramente senza salutare, e si dirigeva verso la pensilina delle corriere da dove saliva su quella in partenza alle 16,35 per Faenza e che passava da Montalto. Alle 16,45 puntuale ogni fine mese la Mina scendeva davanti a Villa la Querce facendo ritorno al suo quartier generale giusto un’ora e trentacinque minuti dopo esserne allontanata. Per il resto dei giorni non si muoveva da lì dando modo a tutti gli astanti di constatare quale fosse la sua devozione verso la delicata missione che le era stata assegnata: dare un modello al peggio.