image1La Mina

Capitolo fortin – Flashback.

Sapevano entrambe chi fosse l’altra, pur essendo la prima volta che si incontravano. Si stavano fissando negli occhi, in silenzio, da quando Ana aveva aperto la porta. Nessuna delle due abbassava lo sguardo e nessuna voleva rompere il silenzio. Sarebbe stato un segno di debolezza e non era certo quello il momento di essere deboli.

Mantenendo gli occhi fissi in quelli della piccola,  e più anziana donna che le stava davanti, Ana si scostò dalla porta per darle libero accesso alla casa, con l’aria di chi ne avrebbe fatto volentieri a meno. Questa senza farsi pregare entrò, ed appena dentro si mise con le spalle al muro sulla parte sinistra del lungo corridoio in attesa che le si facesse strada. Ana chiuse la porta dandole un colpo con il sedere e si incamminò, seguita un passo più indietro da quella piccola donna dai lineamenti duri. Ana, facendo strada, senza girarsi a vedere se l’altra la seguiva, entrò nella seconda stanza sulla destra. Si trattava del salotto della casa. L’arredamento era semplice in, stile anni sessanta, volendo dargli una definizione gentile si sarebbe detto molto démodé. Tutto era lucido e di un legno rossiccio.  Appoggiata alla parete di destra una vetrina dentro la quale si intravedevano pile di piatti e tazzine, al centro un tavolo rettangolare con il piano rifinito in vetro, due sedie su ognuno dei due lati più lunghi, una sedia su quelli più corti, in tutto sei posti a sedere. Sul tavolo c‘era un centrino fatto all’uncinetto, sopra di esso troneggiava un vaso con, dentro un mazzo di fiori finti che, per dimensioni, appariva esagerato.

Ana si sedette su una delle due sedie disposte sul lato lungo di destra rispetto all’ingresso. La donna più anziana, una volta che Ana si sedette, capì quale fosse il suo posto, e allora fece lo stesso mettendosi seduta davanti a lei.

Quello che riempiva la stanza non era imbarazzo, e nemmeno paura, era voglia di finirla presto. C’era un senso di inderogabilità in quell’incontro che si percepiva chiaramente. Regnava l’obbligatorietà di quell’assise. I gesti, gli sguardi, gli stessi piccoli colpi di tosse o sospiri, il modo in cui erano sedute, pronte a scattare in piedi non appena si fossero dette quello che era inevitabile dirsi, indicavano come quell’amaro calice dovesse essere bevuto da entrambe contro ogni loro volontà.

Ana vide l’altra, che aveva la borsa sulle ginocchia, aprirla e tirar fuori alcune mazzette di soldi. Alla fine ne furono disposte cinque sul tavolo. Finita l’operazione, la donna più anziana, appoggiò la borsa sulla sedia accanto alla sua e spinse verso il centro del tavolo con tutte e due le mani quei soldi.

–      Sono cinque milioni. Li conti.

Furono le prime parole pronunciate di quell’incontro, e non furono certo di cortesia.

Quelle due donne erano diverse fra di loro. Tanto era bella, formosa ed alta la più giovane, che poteva avere ventuno, ventidue anni, tanto era brutta e piccola la più anziana, alla quale era difficile dare un’età, quello che si capiva è che sicuramente dimostrava più dei suoi anni.

Ana mettendo le mani sulle mazzette e tirandosele a se rispose:

–      Non importa. Mi fido.

Se possibile Ana fece quel gesto e disse quelle parole con maggior freddezza di quanto non avesse fatto la sua interlocutrice nel metterle sul tavolo.

Già quelle poche parole rivelavano inequivocabilmente che Ana non era nata in Italia e men che meno a Firenze. L’altra continuò:

–      Rispetto a quanto le ho detto al telefono, c’è una novità. Ho cambiato parere. Lei non dovrà più perdere il bambino. Ma non si preoccupi le sarà pagato il disturbo.

–      Ma … lei … non capisco … cosa vuol dire, di la è tutto pronto, la signora è venuta per … per l’aborto.

L’italiano di Ana era imbastardito da un accento dell’est, che rendeva le sue parole più dure di quello che, in realtà, non volessero essere. L’altra invece sembrava non fare alcuno sforzo a dare alla conversazione un tono duro e distaccato.

–      Significa che, oltre a questi, riceverà altri cinque milioni. Li avrà alla nascita. Poi tutti i mesi le sarà versato, sulla sua banca, un importo che le consentirà di vivere con il bambino senza dovere lavorare. Questo fino a che il bambino non avrà la maggiore età. Dalla maggiore età  provvederà al suo mantenimento da sola.

L’espressione di Ana mutò radicalmente, i suoi occhi si addolcirono, le sue labbra cominciarono a tremare, ed insieme a loro anche la sua voce.

Ana non reggendo più lo sguardo freddo della sua interlocutrice abbassò gli occhi sul tavolo e con tono incerto e tremante disse:

–      Non voglio che mio figlio cresca in un casino, in mezzo a uomini che cambiano ogni ora, non voglio che mio figlio cresca come sono cresciuta io. Meglio farla finita adesso. E’ tutto pronto.

L’altra impietosa affondò,

–      Avrebbe dovuto pensarci prima, ma comunque, grazie a noi, il bambino non crescerà come lei, perché, come le ho appena detto, lei avrà di che vivere senza dover lavorare. Dovrà solo preoccuparsi  che suo figlio cresca sano e lontano. Oggi manderà via quella donna pagandola per il disturbo.

Ana cominciava a sentire le lacrime gonfiarle gli occhi, e più cercava di resistere, più la vista le si annebbiava dietro a quell’onda fluida e salata. Due grosse lacrime le caddero in mezzo alle braccia che aveva appoggiato con tutti i gomiti sul tavolo. Tirò su con il naso e con la mano cercò di asciugarle. L’altra guardandola senza un minimo di sentimento o di complicità femminile andò avanti nella sua fredda enunciazione, come a non voler perdere il filo di un copione provato e riprovato.

–      Ho scritto di mio pugno un accordo che lei mi firmerà per memoria di entrambe.

Poi si girò e prelevò dalla borsa sulla sedia un foglio di carta sul quale in una bella calligrafia erano scritte alcune righe. Allungò il pezzo di carta ad Ana sentenziando:

–      Quattro sono i patti che trova lì sopra e che lei dovrà rispettare, pena la sospensione del versamento del vitalizio. Per prima cosa, lei dovrà andarsene da Firenze entro una settimana e non tornarci mai più. Secondo, lei dovrà mantenere il segreto della nascita del bambino con il padre, lui saprà che lei ha abortito e dovrà vivere con questa certezza per sempre. Terzo, non dovrà rivelare mai al bambino chi era suo padre. Quarto e ultimo non dovrà mai più fare il lavoro che sta facendo.

Ana aveva un’espressione ferma, quasi statica, aveva ripreso a guardare in faccia quella donna. Ma non negli occhi, di cui non sopportava il peso; le guardava le labbra che si muovevano mentre parlava, erano fini e coperte di rossetto rosso vivo.

Ana ora piangeva convinta. Non sapeva bene se per l’umiliazione o per la felicità. Le lacrime come legate l’una all’altra le scendevano lungo le guance e cadevano sul tavolo. Aveva smesso anche di asciugarle. Finalmente quella donna finì di parlare. Ogni parola era stata una frustata al proprio orgoglio, ma le lacrime erano per altro, le lacrime erano perché suo figlio sarebbe nato.

–      L’accordo è questo, firmi e non ci vedremo mai più.  Riceverà tutti i soldi che le sono stati promessi.

Ana accolse quell’ultima frase come una liberazione, come se avessero smesso di torturarla con scariche elettriche. Non lesse quello che c’era scritto sul foglio, non ce n’era bisogno le serviva solo che quella donna se ne andasse, firmare era il mezzo più veloce per realizzare la sua volontà. Aveva bisogno di rimanere sola, sola con il suo angelo che le era appena stato donato. Non ci fu bisogno neanche di cercare una penna, le era già stata messa davanti insieme al foglio. Prese la penna, si asciugò con il dorso della mano il naso che le colava, cercò la fine del testo e appose la sua firma.

Il suo aguzzino non contento volle darle un’ultima pena,

–      Per favore scriva di suo pugno anche luogo e data. Grazie.

Ana scrisse sotto la firma in mezzo alla pagina,

Firenze 28 ottobre 1974

Aveva ubbidito incapace di qualsiasi reazione, non pensava più a quella donna, né a quella che stava aspettando nell’altra stanza con acqua calda asciugamani e altri strumenti di morte, ora pensava solo al suo bambino, aveva iniziato a sentirlo dentro di se e non riusciva a staccare la mente da un ragazzino che le correva  incontro a braccia aperte sorridente. Cadde una lacrima sul foglio, esattamente sulla parola “bambino” che lentamente si sbiadì.

L’altra donna recuperò il foglio e la penna, si alzò e uscì senza dire niente ad Ana solo salutandola con un freddo “Arrivederci signorina”.

Mentre Ana piangeva in compagnia dei suoi soldi e di quella nuova incredibile idea, anche all’altra donna, arrivata in strada, cominciarono a brillare gli occhi. Quello che aveva fatto si doveva fare, ma ciò non alleviava la  fitta di dolore in mezzo al petto che quasi le impediva di respirare. Si sentì male e vomitò e pianse nascosta dentro un portone. Era la prima volta che piangeva da quando era morto suo padre. Quella fu l’ultima volta che pianse in vita sua. Nell’ombra del portone si ricompose, uscì e cercò una cabina telefonica.

–      Pronto. Sono io. Ho fatto tutto, sono stata con lei dalla levatrice. È tutto finito. Non ci sarà nessun bambino. Adesso torno a casa.

Dall’altro capo del telefono Fernando ebbe poco da dire,

–      Ti aspetto, preparo la cena.

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