La Mina
Capitolo tertin – Marica.
Passati una decina di giorni dall’incontro con il Mori, Lapo aveva iniziato a prendere confidenza con tutti quei conti correnti e conti deposito di azioni e obbligazioni, che erano disseminati in ben quattro banche. Nessuna di queste era locale, tutte filiali fiorentine. Sicuramente anche questa scelta non era stata casuale, in paese qualche impiegato avrebbe sicuramente raccontato in giro più del dovuto. La Mina, che professionista!
Il ragionier Corsini aveva scritto a tutte le banche notificando loro la morte della signora Mina Lulli in data 29 maggio 2010, e la sua nomina a curatore dell’eredità giacente da parte del Tribunale. Contemporaneamente, con gentilezza ma con fermezza, chiedeva che gli fosse inviata
…..” una situazione aggiornata di tutti rapporti attivi e passivi intrattenuti con l’istituto di credito in indirizzo.”…
Per la richiesta aveva scelto volutamente la formulazione ambigua in modo che la banca si sentisse obbligata a documentare oltre ai liquidi e ai titoli anche eventuali cassette di sicurezza e quant’altro nella disponibilità della Mina. Conoscendo le banche sapeva che se a carico della Mina vi fossero stati dei debiti probabilmente lo avrebbero già chiamato. Sulle attività invece, era altrettanto certo, non avrebbero avuto la stessa solerzia. Il tempo concesso per l’invio erano quindici giorni dal ricevimento di quella comunicazione.
Aveva allegato alla lettera copia del certificato di morte e della sua nomina a curatore dell’eredità giacente, per dare il crisma dell’ufficialità a quanto asserito, Susanna aveva poi provveduto all’invio delle raccomandate.
In pochi giorni dall’invio i direttori delle filiali che avevano ricevuto le raccomandate, cominciarono a telefonare per sincerarsi della situazione, per salutare il curatore, ma soprattutto cercando di convincere il pubblico ufficiale, tale era diventato il ragionier Corsini con quella nomina, a non spostare la liquidità dalla loro banca almeno fino a che non sarebbe stato strettamente necessario, magnificando la bontà dei loro investimenti.
Qualcuno, particolarmente rispettoso e “para culo”, era arrivato a fare le condoglianze al curatore, come se avesse avuto a soffrire della prematura perdita. D’altra parte, ognuno di quei signori aveva diverse centinaia di migliaia di euro depositati presso la sua filiale, che contribuivano a fargli raggiungere gli obiettivi impostigli dalla direzione. Se il curatore avesse deciso di spostare su un’altra banca quei soldi, rimpiazzarli non sarebbe stato un compito facile, specialmente con la crisi che c’era.
Da pubblico ufficiale e da professionista iscritto ad un ordine professionale, aveva mantenuto il segreto sull’eredità della signora Lulli anche con Marina e Anselmo. A Susanna non c’era bisogno di raccomandare niente. In tanti anni di lavoro non gli era mai capitato di sentire in giro qualche notizia sui suoi clienti che potesse essere stata riportata da lei. Sulla fedeltà e serietà di Susanna ci avrebbe giocato una mano, era sicuro che neanche al marito raccontasse niente del suo lavoro.
– Lapo ricordati dell’appuntamento con l’avvocato Torrisi.
Disse Susanna guardandolo da sopra gli occhiali che portava sul naso per vedere da vicino.
– No problem, mi ricordo, è alle quattro. Fra poco sarà qui.
– Sei riuscito a capire per cosa venga?
– No. Non mi ha voluto anticipare niente, mi ha solo detto che mi vuole parlare per l’eredità della Mina.
Erano seduti uno di fronte all’altra alla scrivania di Lapo, stavano compilando una lista degli inquilini degli appartamenti e di quanto questi pagassero d’affitto. Improvvisamente Susanna si fermò e, appoggiandosi allo schienale della poltroncina disse:
– Posso chiederti una cosa?
– Oddio mio ora cosa c’è ? Quando fai così tremo. Intendiamoci niente aumenti, né ferie, almeno per il momento.
Stemperò Lapo, sicuro che si trattasse d’altro.
– Ma no, niente … niente d’importante. Ma lo sai che non sopporto i chiacchiericci …
– Quali chiacchiericci, sputa il rospo Susanna.
– Marina e Anselmo …
Guardando la sua segretaria negli occhi gli uscì un’espressione che suonava più partenopea che toscana accompagnata dal classico gesto interrogativo con la mano:
– Embè ?
– A far colazione stamani, ho sentito che al bar parlavano di loro. Li hanno visti in caserma a Montalto. Un uomo ed una donna parlottavano con il barista. Discutevano del becchino e della segretaria. Non credo ci siano dubbi, parlavano di Anselmo e Marina.
– Così parrebbe. E cosa dicevano?
– Sono state poche frasi, quando l’uomo si è accorto di me ha fatto un cenno alla donna e si sono zittiti. Ho potuto sentire solo che c’è qualcosa di poco chiaro nella morte di una vecchietta a Villa la Querce. E siccome la Mina stava a Villa la Querce …
Seriamente interessato all’argomento, Lapo guardava fissa Susanna negli occhi. Ripensando al fatto che anche lui era stato in caserma le chiese,
– Ah … e … hanno detto altro?
– No. Non finché ci sono stata io. Immagino che appena sono uscita avranno ripreso la discussione. Ma tu cosa ne pensi?
Quella domanda non se l’aspettava da Susanna, anzi oramai non se l’aspettava da nessuno, aveva quasi del tutto dimenticato i sospetti di Anselmo e anche del maresciallo.
– La prima cosa che penso, è che nessuno si fa gli affari suoi in questo paese. Anzi, si tende a ricamare sulle storie degli altri, senza pensare se dal chiacchiericcio qualcuno avrà a soffrire. La seconda cosa è che, a te posso dirlo, in effetti in caserma ci siamo stati.
Susanna a quelle ultime parole ebbe un’espressione mista fra lo stupore ed il dispiacere portandosi una mano davanti alla bocca, come a significare “perché non sto zitta?”. Ma la curiosità è femmina e quel gesto era più di circostanza che veramente sentito quindi continuò:
– Che vuol dire ci siamo stati ? Tu cosa c’entri?
– Purtroppo c’entro anch’io, anzi c’ero anch’io. Sono stato chiamato dal maresciallo Sforza e sono dovuto andare per conferire con lui insieme agli altri.
Lapo raccontò tutta la storia a Susanna, dando anche a lei tutti gli elementi per poter giudicare sulla materia. Adesso era Susanna che ascoltava, guardandolo fisso negli occhi con espressione inebetita. Quando la narrazione finì, rimase un attimo in silenzio pensierosa, poi a mezza voce esclamò un eloquentissimo:
– Cazzo !
Non ci fu tempo per dire altro, una voce dall’ingresso chiedeva il permesso di entrare, Susanna si alzò ed andò a vedere chi fosse. Lapo la sentì mentre faceva accomodare nella saletta d’attesa i pervenuti. Sì, gli sembrò di capire che fosse arrivata più di una persona. Rimase ad aspettare il ritorno di Susanna. Lei si affacciò alla porta e a voce alta per farsi sentire da chi stava nell’altra stanza annunciò,
– Ragioniere sono arrivati l’avvocato Torrisi e la sua assistita.
Mentre pronunciava le parole “sua assistita”, Susanna incrociò volutamente gli occhi, e mimò sculettando e scendendo con le mani lungo i fianchi un corpo femminile molto sinuoso.
Lapo, ridendo della scena, tirò fuori la lingua da un lato della bocca per mimare il suo arrapamento, poi rispose, anche lui con un tono più alto del dovuto, per far sapere a tutti la sua volontà.
– Solo cinque minuti, finisco questa cosa urgente e sono da loro, offra un caffè ai signori.
– Certo ragioniere, lo prende anche lei ?
Susanna accompagnò questa richiesta al boss con il dito medio alzato e un grande sorriso.
Quel dialogo si svolgeva su due piani comunicativi, uno era quello che il capo e la subalterna volevano che sentissero i due appena arrivati. L’altro era quello che il Corsini e Susanna si stavano realmente dicendo con la mimica. Alla scena il boss non potè fare a meno di tapparsi la bocca per non ridere. La loro intesa e complicità, dopo tanti anni, era quasi totale.
Tolse qualche fascicolo di mezzo, cercò di rimettere al meglio l’ufficio centrando le due poltroncine che stavano davanti alla sua scrivania. Si ravviò con le mani i capelli. Si passò le mani prima su una e poi sull’altra spalla della giacca blu, poi prendendosela per i baveri le diede una scossata per ripulirla da eventuali capelli ed altro. Sul blu si sa, si nota tutto. Ora, pronto, si avviò nella sala d’attesa, attigua a quella di Susanna, per far entrare i suoi ospiti.
Quando passò davanti alla scrivania di Susanna lui le fece una faccia seria di circostanza e lei in risposta gli fece una smorfia con la lingua di fuori .
L’avvocato Torrisi era un uomo anziano, sicuramente oltre i settanta anni, molto grasso. Si reggeva i pantaloni con delle bretelle blu, nell’impossibilità di trovare una cintura che potesse percorrere il periplo della sua pancia. Teneva, sul lato della bocca, un mozzicone di sigaro spento, la cui cenere gli aveva imbrattato tutta la giacca scura. Sotto l’ascella destra, reggeva una borsa di pelle marrone molto lisa che aveva fatto il suo tempo. Altre due borse le aveva, ben pronunciate, sotto gli occhi e seppur mimetizzate da un paio di occhiali con una pesante montatura nera stile anni sessanta era impossibile non tenerne conto nell’insieme della figura. Aveva un faccione oblungo che partiva da un’alta stempiatura, marginata da pochi capelli bianchi e andava a finire in un doppio, triplo, ma anche quadruplo, mento ricadente sul colletto della camicia. Questo nascondeva parzialmente il nodo della cravatta che gli arrivava a metà della enorme pancia, a stento contenuta da una camicia che aveva perso la lucentezza del suo bianco. Se fosse stato smentito il vecchio proverbio che l’abito non fa il monaco, quello seduto nella sua sala d’attesa doveva essere un peccatore incallito, con sulla coscienza vari delitti, tanto appariva trasandato nell’aspetto. L’esperienza maturata dal Corsini lo portò a classificare l’avvocato Torrisi come un professionista di quart’ordine, uso a campare con recuperi credito e cause inventate per colpi di frusta da tamponamenti e cose di questo genere.
A vederlo sembrava quasi che un grosso rospo avesse preso possesso della poltroncina nella sua sala d’attesa. Dall’altra parte della stanza, il sole entrava dalla finestra formando una lama di luce che, la tagliava in due per tutta la sua lunghezza e andava a sbattere sul pavimento ai piedi del “rospo avvocato”. Dentro quel raggio di luce che sembrava congiungere quella stanza con il cielo, brillavano migliaia di stelline. Pulviscolo che illuminato da quella luce, diveniva scintillante e ben visibile. Davanti alla finestra, in piedi, voltata di spalle, stava una figura di donna. Era immersa in quella luce e circondata da quel cielo diurno costellato di puntini luminosi. Il sole che filtrava era quasi abbagliante e di quella figura si intuivano solo i contorni. Era alta sopra la media, aveva i capelli vaporosi che le arrivavano sulle spalle, sicuramente chiari, ma il colore preciso era indefinibile in quella luce. Il corpo appariva ben modellato in un abito scuro, composto da giacca e gonna. La giacca, leggermente avvitata, arrivava a metà dei fianchi, la gonna, stretta, la fasciava fin sotto le ginocchia. Le gambe erano ben tornite e soprattutto aveva delle caviglie perfette risaltate da un appariscente tacco nero.
Quella siluette vista così, da dietro, in controluce sembrava quella del fantasma di Marilyn Monroe.
– Buon giorno… anzi buona sera. Lapo Corsini.
Fece Lapo appena entrato all’indirizzo dell’avvocato che nel frattempo stava goffamente cercando di alzarsi in piedi.
– Buona sera raggioniere. Avvocato Gaetano Torrisi. Questa è la mia assistita …
Rispose l’avvocato in un marcato accento meridionale dando la mano a Lapo ed indicando con la testa la donna alla finestra.
Questa si girò e come su un palcoscenico, illuminata da un occhio di bue, si avviò con la mano tesa verso il Corsini.
– Piacere, Marica Taric.