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La Mina

Capitolo tuelv –  Dal Mori.

L’ufficio del suo collega distava forse cento metri dal suo. Dalle sue finestre, in inverno quando faceva buio presto e gli alberi dei giardini erano spogli, poteva vedere la luce accesa nella stanza del Mori. Difficilmente riusciva ad uscire dall’ufficio dopo di lui. Alla fine della giornata lavorativa quando si alzava per chiudere le persiane ed andarsene, l’occhio andava sempre a controllare quella luce giallastra che filtrava dalla finestra al primo piano del caseggiato dall’altra parte della piazza.

Percorse i pochi metri che separavano i due uffici a passi svelti, pensando a cosa avrebbe dovuto chiedere al Mori. Si infilò nel portone, salì al primo piano, entrò alla reception e chiese,

–      Buona sera, c’è il rag. Mori ?

–      Chi devo dire?

Disse con tono professionale la stessa voce che gli aveva risposto al telefono. Altra caratteristica evidente della ragazza, oltre alla voce professionale, erano due grandi seni. Questi attirarono inevitabilmente l’attenzione di Lapo. D’altra parte quella era la chiara intenzione della detentrice di tanta abbondanza. Per  farli notare li aveva scientemente costretti in una maglietta bianca aderentissima. A tanta aderenza e abbondanza veniva lasciato sfogo attraverso un profondo scollo a “V”. Dimenticando completamente la loro proprietaria, Lapo rispose come se la domanda gli fosse stata posta proprio dalle due splendide tette.

–      Lapo Corsini, sono un collega. Ho appuntamento con lui.

Le due tette presero la cornetta per annunciare il visitatore al loro datore di lavoro. Ma non fecero in tempo, dalla stanza accanto, da dove probabilmente aveva sentito la conversazione, Domenico Mori lo invitò ad andare da lui.

Lapo lasciò con un sorriso la ragazza prosperosa, che senza farsi pregare, lo contraccambiò maliziosamente avendo ottenuto l’attenzione desiderata.

Appena Lapo mise il naso nella stanza, cercò di orientarsi per capire quale delle due finestre fosse quella che guardava il suo ufficio; la individuò e capì che in realtà si era sempre immaginato una disposizione diversa di quella  stanza.

Il mobilio invece se lo era immaginato quasi uguale a quello che era: uno scuro e pesante stile fiorentino. La stanza era tutto sommato in ordine, i fascicoli racchiusi dietro le ante a vetro di un robusto mobile risultavano comunque a vista. Alcuni fascicoli erano stati appoggiati sulla scrivania, e dato il modo in cui erano stati accuratamente impilati e posti su un lato della stessa, si capiva che erano stati preparati per lui, infatti  c’era scritto sopra “Lulli Mina”.

Dietro alla scrivania campeggiava un grande ritratto di un giovane, probabilmente uno studente, visti gli occhiali che portava nonostante la giovane età. Poteva avere circa venti, venticinque anni, aveva i capelli lunghi ed era ritratto in piedi appoggiato di lato alla stessa poltrona vuota sulla quale stava seduto adesso il Mori. Lapo riscontrò immediatamente, pur nella giovinezza del ragazzo raffigurato, la somiglianza con l’uomo che gli stava davanti. La figura immortalata, per il taglio dei capelli, i vestiti ed il modello di occhiali che portava, si poteva far risalire alla fine degli anni settanta, inizi anni ottanta. Era il rag. Mori, probabilmente all’inizio della sua carriera.

Volendo rompere il ghiaccio con una battuta Lapo esordì indicando il quadro,

–      Domenico, erano bei tempi quelli, eh?

Intendeva alludere alla giovinezza dell’uomo  rappresentato.

Girandosi lentamente a guardare il ritratto, ed avendo capito il probabile errore di valutazione, Domenico Mori rispose mestamente:

–      In effetti lo erano. Quello è mio figlio Stefano.

Stefano Mori era morto all’età di ventidue anni schiantandosi in moto contro un guardrail. Solo nell’attimo in cui il Mori si era girato verso il quadro si era ricordato della tragedia che aveva colpito quell’uomo. Come aveva potuto non ricordarselo prima di dire quella cosa così stupida. Stefano era nato nel suo stesso anno, non erano amici, ma avevano fatto la visita per il militare insieme. Si sentì arrossire.

–      Scusa Domenico … non volevo …

–      Non preoccuparti Lapo, è passato tanto tempo non potevi ricordare. Ventisei anni il mese scorso. Stefano avrebbe avuto la tua età oggi, vi conoscevate?

Lapo raccontò di quell’esperienza, di quella giornata passata alla caserma “Cavalli” a Firenze, per la visita militare, insieme a Stefano ed a tanti altri ragazzi della loro età.

Passarono qualche minuto a ricordare quel giovane rapito al suo futuro. Era chiaro che per quel padre parlare di suo figlio era un po’ come accarezzarlo dolcemente, era come tenerselo accanto. Immaginarne una vita che non aveva potuto vivere. Lapo  assecondò il suo bisogno di calore ascoltandolo quasi senza intervenire. Mentre il Mori parlava ebbe chiari i motivi per i quali da quel collega avesse sempre ricevuto gesti di simpatia e generosità. La frase con cui aveva esordito, “Stefano oggi avrebbe avuto la tua età” svelava tutto. L’uomo che stava parlando, non aveva potuto vedere l’evoluzione del proprio ragazzo da adolescente ad uomo, e guardare Lapo gli aveva fatto immaginare cosa sarebbe potuta essere la vita di Stefano. Mentre l’altro ricordava, con occhi fieri, le soddisfazioni che il figlio gli aveva regalato negli anni della scuola, dalla sua prospettiva, seduto davanti alla scrivania, Lapo alzò gli occhi verso il ritratto. Notò come l’immagine di Domenico seduto sulla sua poltrona, si sovrapponesse con quella di Stefano, dipinto in piedi appoggiato alla stessa poltrona. Capì che quello era l’effetto che il padre voleva. Lapo con la scusa di accavallare le gambe, si girò ed ebbe la certezza della sua intuizione: alle sue spalle c’era un grande specchio dove il Mori, alzando gli occhi dalla scrivania, poteva vedere il figlio, in piedi, vicino a se. Tornò a guardare il dipinto e gli sembrò, per un attimo, che Stefano lo stesse guardando mentre il padre gli parlava di lui. L’idea che il figlio fosse sempre a fianco del padre nelle lunghe giornate di lavoro lo commosse, e si sentì chiudere la gola da un nodo d’emozione.

–      … ma comunque questa è la vita, bisogna andare avanti e ringraziare il Signore per tutto il tempo che ci ha regalato con lui.

Concluse il Mori. Poi cambiò tono e come risvegliato da un sogno riprese.

–      Prima di consegnarti la documentazione relativa alla signora Lulli, volevo chiederti una cosa.

–      Certo, dimmi cosa vuoi sapere?

–      Mi spieghi cosa diavolo hai raccontato al maresciallo Sforza.

–      Il maresciallo Sforza ?

Chiese sinceramente Lapo non aspettandosi quella domanda ed avendo oramai archiviato la disavventura alla stazione dei Carabinieri.

–      Sì. E’ passato da me una decina di giorni fa con un verbale nel quale eri menzionato anche tu. Mi è piombato in ufficio ed ha iniziato a farmi un sacco di domande sulla signorina Lulli.

“Brutto figlio di puttana” pensò il Corsini, “allora non aveva strappato tutto”.

Ci fu un attimo di silenzio, il Mori si alzò ed andò a chiudere la porta rimasta socchiusa, poi ritornò a sedersi e continuò;

–      Ha voluto sapere in cosa consistesse l’eredità della signora Lulli. Poi mi ha chiesto se ero a conoscenza dell’esistenza di eventuali eredi, quando io gli ho chiesto perché mi facesse quelle domande, lui mi ha ricordato che ero tenuto al segreto professionale e mi ha raccontato una storia di tre persone che sospettavano che la signora Lulli fosse addirittura stata uccisa, uno eri tu.

–      Ma no… Domenico. Io non ho mai creduto a questa storia. Ci sono stato tirato dentro da Anselmo, il becchino. Le cose sono andate così …

Raccontò al collega tutto quello che era successo, a partire dalla storia dello scendiletto, al pezzetto di gomma, al referto del dottore, borsa, cartolina e allegria inconsueta  della Mina comprese. Gli raccontò anche che il maresciallo Sforza disse di voler chiudere quella vicenda, strappando le deposizioni dell’impiegata e del becchino, il giorno in cui lo aveva chiamato in caserma. Concluse la sua ricostruzione dicendo:

–      A quanto pare, il maresciallo Sforza, ha dato più credito alla storia di quanto non ne avessi dato io.

Continuò traendo le sue conclusioni.

–      La Mina, insomma la signorina Lulli, è sicuramente morta per arresto cardiaco, come ha detto il dottore. Ci sono solo un paio di cose che non sono riuscito a spiegarmi, ed evidentemente non sono il solo, ma da lì a pensare ad un omicidio ce ne passa.

Il Rag. Mori si alzò di nuovo ed aprì la porta per controllare che non ci fosse nessuno ad ascoltare, evidentemente non si fidava troppo della “tettona”. Poi riprese.

–      L’eredità Lulli è consistente. Ad occhio e croce ai valori odierni si tratta di circa sette otto milioni di euro, fra mobili ed immobili. Il fratello della signorina aveva ben investito i suoi soldi, parte in appartamenti e parte in azioni che gli hanno fruttato molto. La signorina Mina poi ha sempre reinvestito i guadagni da quando è morto il fratello incrementando ancora il patrimonio.

Lapo sgranò gli occhi a sentire quella somma. Sapeva che i Lulli erano una famiglia abbiente avendo sempre lavorato e mai speso una lira prima e un euro poi, ma non credeva così tanto abbiente. La Mina era proprio ricca, non abbiente.

–      Anche il maresciallo sgranò gli occhi come te, quando seppe dell’eredità. E commentò dicendo che c’è gente disposta ad uccidere per molto meno. Però in questo caso non c’è nessuno che possa avvantaggiarsi della morte della signora Lulli. Non ci sono eredi, e non credo che lo Stato abbia mandato un sicario ad uccidere la povera signora.

Il Mori terminò con quella battuta alla quale Lapo sorrise.

Meticolosamente a Lapo fu fatto l’elenco di tutta la documentazione che gli veniva consegnava, spuntandola da una lista che la “tettona” aveva compilato al computer.

Gli venne spiegata cespite per cespite la storia, il valore all’acquisto e quello presunto alla data della morte, corroborando quanto asserito con una documentazione ordinata e puntuale. Il Mori gli fece vedere quali fossero le entrate e le uscite di ogni anno, degli ultimi cinque anni. Per gli anni precedenti, gli disse che naturalmente aveva tutto ordinatamente archiviato e se gli fosse servita anche quella documentazione non aveva che da chiedergliela. Gli estratti conto bancari ripetevano  le voci quasi ossessivamente negli importi e nelle date. Ogni mese, ogni anno le stesse entrate e le stesse uscite e a fine anno la liquidità puntualmente accantonata, in nuove azioni, obbligazioni e fondi. Milioni di euro gestiti da quella vecchietta con una lucidità ed una avvedutezza difficile da immaginare nel più professionale dei gestori di patrimoni. “Ma dove aveva fatto pratica quella terribile vecchietta alla JP Morgan ? “

La scelta degli investimenti e disinvestimenti era fatta con criteri di scelta ponderati, moderni, matematici. Lapo era incredulo mentre Domenico Mori gli ricordava, onestamente, che lui provvedeva solo ad eseguire gli ordini della ottantacinquenne milionaria, e che tutte quelle valutazioni e conseguenti scelte, le aveva fatte sempre lei in piena autonomia. Ci vollero quasi due ore per controllare tutte le voci della lista, e quando anche l’ultimo fascicolo fu visionato l’anziano ragioniere disse:

–      Sorpreso eh? E non è finita.

–      Ah no ?

Replicò Lapo inghiottendo rumorosamente.

–      Ho sempre avuto il sospetto che la signorina abbia anche provveduto a formarsi un gruzzolo fuori dall’Italia.

–      No. Questo è troppo, non ci credo. La Mina aveva conti all’estero?

Sbottò il Corsini.

–      A San Marino. Controlla tu stesso, ogni mese da tantissimi anni c’è un bonifico su una banca di San Marino. Però ho solo questa traccia. Mai avuto un estratto conto di quella banca, e quando ho provato a chiedere qualcosa … bhe la signorina sapeva farti capire quando dovevi… farti gli affari tuoi.

–      A vederla le avresti quasi fatto l’elemosina, ed invece Villa la Querce poteva comprarsela. Questa donna mi sorprende ogni volta.

Lapo firmò la distinta di consegna di tutta la documentazione. La ”tettona” ne fece una fotocopia per lui, poi l’aiutò a mettere tutti i fascicoli dentro a due grandi borse blu dell’IKEA.

Mentre gli teneva la porta aperta perché  Lapo aveva entrambe le mani occupate a tenere i pesantissimi fascicoli, il Mori lo salutò dandogli un’ultima informazione.

–      Il maresciallo mi ha detto di tenerlo informato su eventuali novità. Passo a te la palla. Io lo avvertirò che tu sei il curatore dell’eredità e che d’ora in poi si rivolga a te.

–      D’accordo lo chiamerò anch’io. Grazie Domenico.

Lapo fece per licenziarsi ma il Mori riprese,

–      Però … senti … riguardo a quella cosa del maresciallo Sforza, qualcosa in più gli ho detto. Perché in effetti il giorno della morte qualcosa di strano la signorina Lulli lo fece anche con me.

Lapo appoggiò le borse a terra convinto che valesse la pena ascoltare con tranquillità quello che il collega stava per dirgli.

–      Quel giorno dopo che era stata da me come sempre e mi aveva fatto sbrigare le solite incombenze uscì ma ritornò una seconda volta dopo una mezz’ora.

Lapo ascoltava incuriosito cominciando nel suo intimo a rivalutare le minchiate di Anselmo.

–      Sì ritornò, ed era piuttosto trafelata, mi chiese di fare una fotocopia. Io l’accompagnai alla fotocopiatrice, nella stanza di Beatrice …

Ecco come si chiamava la “tettona” pensò Lapo, Beatrice quel nome gli sarebbe stato utile prima o poi.

–      … ma arrivati davanti alla fotocopiatrice mi fece cenno, con il solito garbo che la contraddistingueva in ogni occasione,  di farmi da parte. Anzi mi disse proprio “stia lontano faccio da sola!”. Volle fare da sola e così dovette strappare un paio di copie prima di  riuscire a farne una come voleva lei. Se la mise in tasca e se ne andò chiaramente senza salutare.

–      Tipico della signorina Lulli, e Sforza cosa ti ha detto?

–      Mi ha chiesto se sapevo cosa avesse fotocopiato, ma io non lo so e questo gli ho dovuto rispondere.

A Lapo non parve una notizia sensazionale, la commentò in maniera banale e salutò:

–      Di nuovo … ci sentiamo, ciao Domenico.

Si avviò verso l’uscita e quando arrivò alla porta trovò le due tette che gliela stavano tenendo premurosamente aperta. Queste gli parlarono a bassa voce per non farsi sentire dal principale,

–      Ragionier Corsini, anche a me il maresciallo ha chiesto qualcosa …

Allora aveva ragione il collega ad essere sospettoso, la “tettona” aveva origliato la loro conversazione. Lapo si sporse verso di lei per raccogliere la confidenza ed approfittare per buttare un occhio in mezzo a tutto quel bendidio.

–      … mi ha chiesto se sapessi cosa la signorina avesse fotocopiato. Ed io gli ho detto che lo sapevo …

–       Ah, davvero Beatrice ?

Disse Lapo dando un nome alle due tette.

–      … già perché ho ripescato dal cestino le copie venute male e …

–      e …

Rimarcò Lapo sgranando gli occhi in attesa della sorpresa.

–      E… nulla, la carta d’identità

–      La carta d’identità?

–      Si la signorina fotocopiò la sua carta d’identità.

Sulla faccia del professionista si lesse tutta la sua delusione.

–      Eh si strano … la carta d’identità … bha chissà … comunque grazie per l’informazione.

Lapo reputò questo dettaglio come poco interessante quindi salutò ed uscì lanciando un gran sorriso alle due “gemelline”.

Dovette fermarsi diverse volte nel tragitto che fece a ritroso fra i due uffici, per via delle due borse troppo pesanti. Non credeva a quello che gli aveva appena raccontato il Mori, “la Mina era milionaria, nessuno lo sapeva, e nessuno si sarebbe goduto quella fortuna. ”.

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